Anna 1975

Il primo giorno di lavoro all’Italsider O.S. di Cornigliano                                                                             torna indietro

 

Non avevo ancora compiuto 25 anni ed ero stata assunta a tempo indeterminato nella più grande fabbrica genovese, inquadrata al quinto livello come neolaureata e quindi con una carriera programmata fino all’ottavo e massimo livello impiegatizio che avrei raggiunto in tre anni, a meno di gravi errori.

Ero felice ed entusiasta. Avevo studiato per fare l’insegnante di filosofia ma senz ripensamenti avevo colto questa straordinaria opportunità.

Gli amici dei miei genitori chiedevano “ma da chi è stata raccomandata? Chi conoscete voi, immigrati veneti, così importante da far entrare vostra figlia all’Italsider adesso che non assumono più nessuno?”.

Invano i miei genitori dicevano che ero entrata attraverso una selezione pubblica, non erano creduti, in quella grande fabbrica si entrava solo con raccomandazione.

Era stato vero per molti anni, in azienda, ai vari livelli, entravano persone ‘affidabili’ segnalate dai preti delle parrocchie o da persone conosciute dalla direzione.

Io avevo risposto, con altri amici neolaureati, ad una inserzione uscita sul Secolo XIX nel luglio del ’74. Cercavano neolaureati da inserire nella direzione del personale per occuparsi di nuova organizzazione del lavoro.

Nel ’72 era stato firmato un contratto di lavoro che parlava di ‘inquadramento unico operai impiegati’. Una rivoluzione non solo salariale ma culturale. La direzione dell’Italsider si proponeva e si preparava a superare il modello tayloristico e si parlava di ‘ricomposizione delle mansioni’, ‘arricchimento professionale’, ‘qualità del lavoro’, ‘ergonomia’.

Le assunzioni erano bloccate, la crisi della siderurgia a livello europeo già presente, lo stabilimento di Taranto era invaso da tecnici giapponesi che insegnavano come ‘aumentare la produttività’. Ma a Genova avevano deciso che servivano giovani neolaureati per la direzione del personale.

Mi ero preparata, avevo studiato per mesi testi sull’organizzazione del lavoro, lo Statuto dei Lavoratori, le problematiche dell’assenteismo, le recenti teorie americane per aumentare la motivazione al lavoro e altro ancora.

Avevo fatto delle buone prove di selezione. Così buone che il Direttore del personale mi aveva convocato per farmi i suoi complimenti. E per dirmi che era molto dispiaciuto ma non potevano assumermi perché non potevano mandare una donna a parlare con gli operai degli stabilimenti, in siderurgia non c’erano donne. Era davvero dispiaciuto, diceva che lui, personalmente, non voleva fare discriminazioni, ma erano le ‘condizioni oggettive’ che lo costringevano a non assumere ‘una persona così brillante come lei’.

Ricordo un incontro franco, in cui ci si guarda negli occhi, non mi ero arrabbiata, ero solo addolorata, come lui, come il capo del personale, cosa potevamo fare contro ‘le condizioni oggettive’?

Non mi sono sentita discriminata, non ero neanche dispiaciuta di aver studiato alcuni mesi inutilmente, a pensarci bene in fondo ero spaventata anch’io all’idea di andare a fare interviste o colloqui motivazionali agli operai di Bagnoli o di Cornigliano.

Il capo del personale mi suggerisce di presentarmi a Cornigliano (i colloqui e le prove erano stati fatti nella sede centrale di via Corsica, là dove adesso hanno aperto un  hotel super, a cinque stelle e più) alla direzione del SIC, ovvero Sistema Informativo Centrale.

Lì stavano facendo dei colloqui di assunzione per neolaureati per potenziare il sistema informativo aziendale. Avrebbero assunto una decina di giovani con laurea in ingegneria elettronica, matematica e fisica.

Io, con la mia laurea in filosofia, cosa c’entravo?

Il fatto era che il direttore del SIC era un tipo genialoide, laureato in Filosofia della Scienza, e anch’io ero laureata in filosofia della scienza, con una tesi sulla Filosofia della Matematica di L. Wittgenstein, con un esame di logica matematica e di informatica, tanto valeva provare. Perché no?

Telefonai e la segretaria mi richiamò dicendomi di presentarmi al colloquio di selezione. Era il novembre del 1974.

Entrai dalla portineria di Via San Giovanni d’Acri, non quella in fondo, quella a metà che dava accesso alla palazzina di mattoni rossi, che adesso è la sede della Camera del Lavoro di Genova e allora era la sede del Centro Elaborazione Dati, quella che, lo imparai dopo, i delegati del Consiglio di fabbrica chiamavano ‘la torre d’avorio’.

Più che emozionata ero incuriosita, mettevo piede nel territorio di quella immensa fabbrica, che impiegava, allora, poco meno di 12000 persone, più almeno altre 6000, considerando le aziende dell’indotto, in tutto 18000 persone, anzi uomini, dato che le donne erano pochissime.

Quella fabbrica che tingeva il cielo di rosso e che produceva pulviscolo sui davanzali della mia casa che era parecchio più in là, a Sestri ponente.

Non avevo aspettative, solo curiosità e molto interesse a incontrare una persona descritta come eccezionale, nel bene e nel male.

Il direttore era davvero un personaggio ‘stravagante’, parlava con entusiasmo e una buona dose di narcisismo della rivoluzione informatica che lui stava realizzando nello stabilimento di Cornigliano e che era prototipo per gli altri stabilimenti e per tutte le aree aziendali.

Mi parlò del ‘sistema on line real time’ di controllo della produzione, unico in Europa per la siderurgia e secondo in assoluto dopo quello delle linee aeree della Lufthansa.

Mi diede da leggere i suoi due libri scritti sull’esperienza Italsider e mi chiese di parlargli della ‘macchina di Turing’ (considerata il primo calcolatore ideale).

Quando uscii avevo le idee confuse, si seppe dopo che ero stata l’unica a rispondere in modo appropriato alla domanda su Turing, che faceva a tutti i candidati.

Mi fece chiamare qualche giorno dopo e mi disse che erano stati assunte nove persone, tutte con lauree scientifiche, compresa l’unica donna candidata, laureata in ingegneria elettronica .

Riteneva che io avessi delle potenzialità, ero disponibile ad andare gratis per un mese in azienda? Mi avrebbe affiancato alle persone del gruppo di sviluppo software e poi ci saremmo incontrati per la decisione finale.

Ovviamente accettai, mi sentii stimata e valutata positivamente, mi disse che nella palazzina c’erano circa cento persone, di cui solo quattro donne, una di queste era l’unica dirigente donna dell’Italsider, era un’ingegnere di mezza età.

In quel mese capii che c’era davvero molto da imparare ma sapevo che era stato predisposto un piano di formazione della durata di un anno per tutto il gruppo di neoassunti: potevo farcela, volevo farcela. Non capivo tutto quello che mi spiegavano, ma quel mondo mi attraeva e affascinava, quel mondo che era la palazzina dei computer ma che lavorava per produrre il miglior acciaio possibile e per migliorare anche le condizioni di lavoro degli operai (forse).

Tutti erano gentili con me, pazienti e disponibili, l’ambiente di lavoro era gradevole, a metà mattina si andava a far colazione nel bar del circolo aziendale, imparai anch’io a mangiare il panino col prosciutto, non a bere il bicchiere di bianco. La gente scherzava, ci si dava tutti del tu, giovani e meno giovani, c’erano persone ironiche e divertenti, un bel mondo!

Avevo la possibilità di diventare una ‘siderurgica’, avrei fatto parte del mondo dei ‘metalmeccanici’, avrei potuto iscrivermi al sindacato FLM di cui tanto si parlava per le rivendicazioni innovative e per la cultura ‘di classe’ che si rivolgeva non solo alla fabbrica ma al mondo fuori, come insegnava l’esperienza delle 150 ore di diritto allo studio conquistate con il contratto di lavoro di quell' anno.

A fine mese mi fu comunicato che mi avrebbero assunto dal 1 febbraio dell’anno nuovo, il 1975. Non mi venne in mente, neppure per un attimo, di non accettare.

Il primo febbraio mi presentai, alle otto, in portineria, quella che già conoscevo, ma questa volta c’era il mio cartellino da timbrare e il portinaio di turno che mi accolse con un ‘buon giorno dottoressa’. Era la prima volta da quando mi ero laureata, esattamente il febbraio dell’anno precedente, che qualcuno mi chiamava ‘dottoressa’. E così fece, quel gentile portinaio, per tutti i cinque anni che lavorai in Italsider.

Dopo pochi giorni ci portarono a visitare lo stabilimento, noi giovani assunti.

Ogni giorno un reparto. Un altro nuovo mondo mi si apriva davanti. Quello che mi rimase più impressa fu la visita all’acciaieria: l’inferno dantesco! Rumore, fumo, bagliori di fiamme e gli uomini piccoli piccoli che camminavano quasi sopra, o così mi sembrava, enormi pentoloni ribollenti in cui gettavano manciate di sostanze perché ‘loro capiscono ad occhio cosa serve aggiungere per ottenere l’ acciaio giusto’.

Ritornavamo al Centro di calcolo, pulito, luminoso, quasi accogliente, dove giravano i tecnici del calcolatore in camice bianco, inferno e paradiso, così vicini, così lontani.

Quante cose avevo da imparare! E non solo come scrivere i programmi in linguaggio Assembler.