1997 Giovanna                                                                                                                                       torna alla pagina iniziale

La spiaggia

 

 

Dov’era la spiaggia?

Con un dito poteva tracciarne l’arco nella mente e disegnare le case affacciate sul litorale e la sagoma di Castello Raggio. Se la realtà cedeva il passo alla fantasia il bianco e nero restituiva i sassi lisci e l’acqua che scivolava sui piedi e poi ancora i rumori del mare, del vento, del quartiere.

La spiaggia appariva nei suoi sogni, ma non faceva parte del suo passato poiché, è un fatto, per lei esisteva solo nelle foto seppia che i luoghi più improbabili della città – bar, circoli, sale di attesa – riservavano a clienti distratti o in fuga. Ma era un incanto fermarsi a guardarla.

Adesso che la abitava, l’immagine si riproduceva da sola. In un istante. Su richiesta.

 

Della spiaggia avevano parlato tutti: comitati, ambientalisti, uomini e donne del quartiere, evocandola con rimorso. La spiaggia conteneva i loro ideali di vita. Bellezza sottratta quando il progresso masticava cose meravigliose per il lavoro. Erano undicimila ai tempi dell’assassinio di Guido Rossa gli addetti dell’Italisider. Praticamente un esercito con i figli e mogli e nonni che le dovevano rispetto e gratitudine.

Così spiaggia e fabbrica combattevano alla ricerca di un senso, che è quello che si vuole dare normalmente alle cose passate, che sostenesse il suo essere lì.

Sulla carta, all’alba del 1997, lei doveva far parte della schiera degli eternamente grati ad un’idea di progresso che politici, governo, comitati stavano smantellando in nome di un ambiente dalla consistenza dei sogni, ma numeri per malati di cancro sorprendentemente superiori alla media.

 

Lei era parte dei duemilasettecento addetti delle Acciaierie ed ogni mattina varcava i tornelli.

Loro non erano precisamente padroni cattivi. Erano padroni. In un lampo si erano comprati la siderurgia pubblica a prezzo di saldo. E i dipendenti avevano compreso che non sarebbe stata più aria. Aria per cosa? Aria e basta. La logica delle fusioni produce vittime. I dipendenti sapevano di essere vittime.

Non si tratta di una consapevolezza lucida. E’ un sentire che si acquisisce giorno per giorno. E’ l’ufficio che fa capriole, con le carte all’aria, la gente che accorre, le domande pressanti, i bilanci, i conti, le analisi, le riunioni spietate. Perché avete fatto così?

E’ l’8 settembre aziendale, inevitabile e atroce che impone le sue regole. E poi la tregua nella quale si contano fedeli e partigiani.

Lei guardava il mutare dei caratteri, i colleghi tramutati in ombre, altri, in grado di riferire l’irriferibile, acquisire potere. Uomini e donne prima liberi, adesso un po’ meno liberi, come frenati dagli eventi, nel tentativo di assecondarne il flusso.

Il coraggio di pochi si esprimeva nell’abbandonare la barca muniti di un nuovo lavoro. A Genova? A Milano? Poco importava. Il disprezzo per il lavoro passato era la costante dialettica. Ma come avete potuto?

 

Erano sbagliati gli impiegati, sbagliato il modo in cui aveva agito l’azienda, frutto di una gestione malata, collusa, sprecona. La nuova proprietà era lì per ricordarlo e salvare il salvabile.

Gli uomini di punta vennero mandati a presidiare uffici e stabilimenti acquisiti su tutto il territorio nazionale. Arrivavano al lavoro per primi e lo lasciavano per ultimi. Senza esibire master bocconiani, avevano un approccio pratico per i problemi. Familiare. Privo di orpelli. Era la filosofia della piccola fabbrica lombarda nella quale il “padrun” sa cosa è bene e cosa è male. Ed ha sempre ragione. Gli uffici si dimostrarono malleabili come l’acciaio fuso. Piegati e forgiati esibirono in tempi brevi nuovi assetti, riduzioni di dirigenza, grande produttività.

In via Corsica si lavorava più velocemente, senza sprechi.

Molti dipendenti divennero consapevoli che i nuovi padroni erano nel giusto. Accettarono l’approccio, i commenti sprezzanti, e a tratti un fare canzonatorio. Altri ingoiavano la sconfitta di un sistema nel quale avevano creduto ed erano stati meglio. Quanto ti manca alla pensione? Sarebbe stata la domanda più posta negli anni successivi.

Molti dipendenti divennero consapevoli che i nuovi padroni erano nel giusto. Accettarono l’approccio, i commenti sprezzanti, e a tratti un fare canzonatorio. Altri ingoiavano la sconfitta di un sistema nel quale avevano creduto ed erano stati meglio.

Quanto ti manca alla pensione? Sarebbe stata la domanda più posta negli anni successivi.

 

Con le tessere sindacali gli impiegati di Via Corsica composero aeroplanini di carta che alcuni abitanti del quartiere videro volare dalle finestre. Sparirono i delegati, suggerendo, nel fare le valige, iscrizioni esterne di certo più consone alla situazione aziendale.

Le opposizioni si trasformarono in lamenti, i lamenti in sussurri, i sussurri in silenzio. Come una coperta, la resa avvolse tutti, audaci e pavidi.

La flessibilità su orario di ingresso ed uscita sparì, e con essa la mensa, e lo sportello interno bancario, e poi lo spaccio di Mura Santa Chiara, e poi gli uffici di mura Santa Chiara, e poi gli uffici di Via Corsica e di trasloco in trasloco, gli impiegati, la cui fedeltà era misurata a natale con panettone e gratifica natalizia, si ritrovarono tutti a lavorare su quello che era rimasto della spiaggia di Cornigliano: i ricordi.

Prima fu la distanza da casa. Il tragitto, il cambio di treno, di autobus, la macchina, la moto.

Come ci arrivo sin là?

Cornigliano per alcuni lontana come le Isole Eolie.

Ci arrivi, vedrai…

Certo lo stabilimento era un’isola. Circondata da un mare.

Un mondo a parte.

 

8.35 e 8.36

Davanti al tornello quel minuto in più costava mezz’ora di ferie.

Ah! Se avessi le ali…E se quel semaforo non fosse durato così tanto! E se questa società fosse ancora statale. Beh, allora, potrei entrare dalle 8 alle 9 e recuperare in uscita…

Una società di stato. Alata. Come un angelo.

I guardiani godevano nel vederli, il badge tra le mani, mentre maledicevano mese e giorno, ma soprattutto ora: 8.36

A lei succedeva spesso. Ma le accadeva anche di far scivolare il badge un istante prima dello scadere dei 35. Ed era come allo stadio, quando la squadra faceva goal.

E l’autobus, un mezzo pubblico in disuso, arancione, vecchio, impolverato, con i vetri sporchi, da demolire, che dondolava lungo linea immaginaria dello stabilimento, accompagnando i lavoratori ai loro posti, inghiottiti dalla fabbrica che è capannoni, e grigio, acqua che schizza, e montagne di materiale, e treni di coil in partenza. Tutte le tonalità del nero. Al mattino.

 

C’era un genuflettersi generale all’evidenza. Insieme al corpo si piegarono loro stessi davanti ad un carico di lavoro che richiedeva puntualità, precisione e non necessariamente intelligenza. Erano scolari suddivisi in classi nelle quali le scrivanie, disposte una dietro l’altra, riducevano le occasioni di distrazione. Il capo, se non era nell’acquario a vigilare, capitava all’improvviso per sedare i più discoli. Alla morra cinese, le forbici dell’azienda avevano fatto carta straccia di qualità del lavoro, anni di gestione del personale, e sindacato.

Come ci è accaduto?

Perché nessuno di noi ha reagito?

Cosa ti ha detto il capo oggi?

Davvero? Ma non dovevi permetterlo!

Eh…La prossima volta voglio vedere te!

 

Era accaduto perché ognuno di loro aveva un prezzo, e  “la trattativa” da collettiva era diventata individuale, perché quel prezzo era la cifra stanziata dall’azienda a Natale per festeggiarli.

Posso crescere? Sì che posso!

A condizione che.

La famiglia ha molto apprezzato il suo impegno durante l’anno. E saprà esserle riconoscente anche negli anni futuri.

A condizione che.

A condizione che non ricordi ai miei figli quello che ero e quello che vorrei essere. A condizione che non lo ricordi nemmeno a me stessa. A condizione che non scioperi e non sia iscritto a un sindacato che si è tirato indietro ancor prima di me. Ma poi quale forza ho? Posso davvero incidere? La mia coscienza è così piccola, poca cosa davanti alla loro forza. E quanti soldi mi danno? E quelli che potrebbero venire negli anni…

Datemi un tappeto.

 

La spiaggia riapparve nel 2002. gennaio o febbraio. Di certo faceva freddo. Non c’erano bagnanti. Ma un sole bizzarro di quelli che regalano pochi raggi e che danno l’illusione che l’inverno stia per finire. La spiaggia era vuota. Lei riuscì a fare una lunga passeggiata fino a Castello Raggio. Accese una sigaretta e si sedette sui sassi vicino alla battigia. Fingeva il sole. Fingeva di essere quello che non era. Quindi alzò il colletto del piumino e si coprì il collo con la sciarpa di lana. E guardò il mare.

A quest’ora non dovresti essere qui

Lo so

Dovresti essere al lavoro

Lo so

 

Hai perso qualcosa?

Ho perso me stessa.

Allora guarda sotto il tappeto.

Quale tappeto?

Di sabbia e sassi. Sotto di te.

Si guardò attorno, altoforno e capannoni. E sull’autobus solo colleghi: avevano timbrato in orario.

 

Forse fu la politica.

Come non parlarne? Scivolava oltre i tornelli, piroettava sulle loro scrivanie, schiantava e balzava come un’anima estranea, fantasma potente e dispettoso. E furono le parole. Che travalicavano gli schemi e chiedevano di essere dette.

Avete visto il Sergio che combina?

Il cinese? Il pocket coffee?

E cosa volete che combini?

Mah non so!

Cosa vuoi sapere tu…dopo quello che hai votato!

Intanto io adesso sono rappresentato!

Zitti. Zitti. E’arrivato il boss.

 

E nei bagni delle donne

Scioperi?

No che non sciopero! Fossi matta!

Ma proprio tu?

Sì proprio io! Ascolta: vuoi che ti massacrino? Ma ne vale la pena? Io ho bisogno dei loro soldi! Ma poi più ci penso, meno ci credo! Questo sciopero non cambierà nulla… Questo sindacato non cambierà nulla! E’ tutta politica. E questi privati sono i primi che mi hanno valorizzata! Ecco la verità!

Ma pensa al futuro dei tuoi figli!

I miei figli? I miei figli non hanno futuro! Lascia perdere! Ma che ti è preso?

Hai mai immaginato questo posto con la spiaggia e Castello Raggio?

Castello Raggio?

E la sabbia e il mare…

Sì. L’ho immaginato. Però…

Però?

Però non sciopero.

 

Cosa aveva sentito? Aveva sentito qualcosa? Cercare. Rovistare dentro di sé le parole antiche, seppellite: mi racconti? Qual è la tua storia? Tu, che sei più vecchia…No, non ti offendere! Non intendevo quello…Ma sai com’è…

Mamma

Sì, cara!

Volevo sapere di prima… degli anni Settanta

Delle bierre?

No! Non delle BR! Di quando andavi in sciopero…

In sciopero! Certo! Per cosa?

Mamma! Non so per cosa…Dimmi tu!

Tutti! Li ho fatti tutti gli scioperi! Non è servito a nulla! Mi capisci?

A nulla?

Cosa ti ho lasciato?

Non so. E’ che qui dentro, sai, è talmente dura…Volevo trovare…

Trovare cosa?

Non so nemmeno io

Tuo marito come sta?

Bene

E tuo figlio?

Lui sta bene!

Allora tutto a posto?

Sì. Tutto a posto.

 

Si era tuffata. Certo non c’era nessuno. Quindi aveva tolto la maglietta e la gonna e le scarpe e i collant. Aveva nuotato. Era così dolce il mare, salato, caldo. Una bracciata via l’altra ondeggiando come una medusa. Ad ogni spinta un respiro. I capelli lisci, fradici d’acqua. E i sassi della spiaggia perfetti, lisci, distanti. Castello Raggio dal mare pareva un maniero. E i panni bianchi, cangianti sventolavano liberi. Come lei. Lontani i rumori delle case. Voci di persone, sbattere di stoviglie, radio accese. E la spiaggia vuota.

 

Ci siamo anche noi.

Chi siete?

Le bloccò il braccio.

C’è assemblea oggi, vieni?

Mi racconti di te? – certo non glielo poteva chiedere. Ma forse. Più tardi.

Era donna. Non che le differenze di genere avessero fatto mai distinzione nella sua vita, ma in quel contesto assumevano un significato determinante, come un bollino.

E in quanti saremo?

L’altra sorrise alla domanda stupida.

 

Si contarono sulle dita di una mano e la loro inadeguatezza aveva il peso degli oggetti fuori posto. Erano come scarpe dimenticate in corridoio.

Gli operai le guardarono con un misto di disprezzo e sufficienza, misurando la distanza che il  buon senso valutava necessaria tra loro e quelle lì. Le impiegate stavano portando in assemblea una compagnia di spettri, impreparati alla battaglia e senza alcuna fede. Le impiegate avevano le sfumature della guerra persa e l’insolenza della loro partecipazione all’assemblea rasentava il ridicolo.

Che ci fate?

Ma non avete rispetto per noi?

Chi vi ha detto di varcare il confine?

 

Che ci facciamo?

Perché osare tanto?

 

In un mondo che, da immaginario era diventato reale, non c’era spazio per il dialogo. I luoghi, in stabilimento, erano assegnati a professionalità precise che non dovevano venire in contatto. E nemmeno conoscersi o salutarsi. Impiegati da una parte, operai dall’altra. Nemici per censo, destino, vocazione. Nemici per storia sindacale e per passato recente. Nemici perché crumiri gli uni, impavidi gli altri.

Le donne sapevano poco o nulla di produzione, impianti, lavoro, fatica e le sigle – LAF, ZIN, MAG, LAM, AFO - evocavano loro territori indistinti, dagli scenari ottocenteschi, nascosti.

Che ci facciamo?

Se ne può parlare?

Ma che dite? I vostri colleghi non ci sono mai! Stanno tutti in ufficio adesso

Guardatevi alle spalle! Il vuoto

Dispiace che facciate tutti questi sforzi, ma non rappresentate nessuno.

 

Potevano essere duecento o trecento nel capannone destinato alle assemblee gli operai, con un squadra di impiegati che valeva nulla per la loro guerra. Piccoli, incerti, di mezza età, un tantino stropicciati. Pochi e patetici. E loro, quelle lì, a intervenire. Entrando nel merito in maniera inopportuna. Con il dito puntato a far domande.

E all’inizio furono solo fischi. Piccole saette, svettanti dall’uditorio, a provocare. Fischi di strada rivolti a chi, di quelle, prendeva la parola in assemblea. E poi furono le parole e la voglia di ascoltarsi. Parole mescolate ai fischi diventati forse più amicali e meno strafottenti. In gioco l’idea che l’assemblea non finisse con le relazioni del sindacato ma potesse proseguire.

Prendo me stessa e mi butto nella mischia

Prendo le mie idee e le butto nella mischia

Perché ho paura?

Mi posso permettere di aver paura?

 

Comunque sole. In ufficio e in assemblea. Sole di una solitudine così tangibile da farne mantello, cappotto, gonna o scarpe. Solitudine come griffe. Lusso.

Infine la storia della collega che - in causa per mobbing contro l’azienda - aveva perso in Cassazione.

Sola anche lei.

 

Ma come è potuto succedere?

Sai ha parlato troppo…

E cosa ha detto?

Mah, non so…

 

Piangere sull’asse da stiro. E sentire che in un mondo incapace di tutelare una donna sola al mondo tutto è perduto.

Capita anche a voi?

Il cuore si tuffa all’improvviso e tonfa. Tonfa due, tre volte, finendo nello stomaco. Si sposta.

Dei molti cuori spostati chi chiederà il conto? Dove sono finiti?

 

Signora non c’è! – il medico, all’esame clinico è stupefatto

Davvero non lo trova?

C’è tutto: arterie, aorta, vasi…ma non lo trovo…Dov’è finito?

Guardi più in basso. Ha fatto tanti balzi…Ma la macchina funziona, i battiti ci sono?

Certo che ci sono! C’ è tutto…forse la pressione…sa, Signora, è un po’ bassa…

E’ il minimo…

E’ "al" minimo…Ma dov’è?

Il mio cuore? E’ nello stomaco!

Ma sa che ha ragione! Lei è un caso clinico! La posso rivedere?

Casi clinici.

Per azienda, sindacato, enti locali. Meteore impazzite, cuori spostati, da mettere in cassa integrazione, a far meno danno.

In cigs organi, utero e testoline.

E le parole che sfiorano le labbra a diventare suono. Parole a dar voce all’evidenza di una riconversione che è infinita attesa per il quartiere e per chi in stabilimento lavora ancora.

La politica nel cuore e il cuore a bagno: sulla spiaggia.

 

Loro hanno spostato i sassi uno ad uno. Castello Raggio ancora lì, le persiane spalancate.

E il mare tutt’uno con il cielo a formare una linea continua avvolta nella nebbia. Nessun suono. E un freddo cane. Gli spilli del gelo che spezzavano la pelle. E pioggia.

Alcuni, a guardarle dalle balaustre, piangevano le lacrime della resa che, per prime, vanno tutelate. Perché sono le lacrime degli inermi. 

 

Tra i sassi le donne trovarono le vicende di altre donne. Quelle che erano venute prima. Le loro storie puntellate su trapezi e salti mortali. Storie importanti da ricordare a chi veniva dopo, come fossero film o favole, insieme alla loro storia infinitamente breve e senza finale.

 

Che ci fate qui?

Stavamo cercando noi stesse

E cosa avete trovato?

Tutto. Davvero tutto. Vuoi favorire?