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Recensione di “L’operaia che amava la sua fabbrica” di Maria Pia Trevisan

La Memoria del Mondo Libreria Editrice – 2010

 

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E’ un bellissimo avvenimento che sia nato un altro libro che racconta, con occhi di donna, il mondo della fabbrica nel periodo della primavera sindacale, da un po’ prima dell’autunno caldo, alla chiusura di quel periodo, negli anni ’80.

Dico “un altro” perché in questi ultimi anni sono stati pubblicati altri due libri importanti: “Dita di dama” di Chiara Ingrao, e “Non è un gioco da ragazze”, di Giovanna Cereseto, Anna Frisone, Laura Varlese. Libri diversi: un romanzo, un libro di storia e una “quasi autobiografia”, come si legge nel sottotitolo del libro di Maria Pia Trevisan.

“L’operaia che amava la sua fabbrica” è scritto molto bene. Comunica emozioni e sollecita riflessioni e pensieri. Narra una sorta di “educazione sentimentale” che, al centro, invece della relazione amorosa, ha il rapporto con il lavoro e la politica.

La scrittura, solo apparentemente semplice, riesce a descrivere l’inevitabile ambivalenza dei rapporti, a iniziare da quello con i genitori, un padre autoritario con cui “è impossibile discutere”, che “decideva per tutti”, e una madre che non sa o non vuole opporsi “mia madre dava sempre ragione a mio padre”, ma entrambe amati per il molto che comunque avevano saputo dare.

Ambivalente anche il rapporto con un lavoro prima rifiutato “Ci impiegai qualche secondo prima di rispondere. Non mi usciva la voce. No, io non volevo fare l’operaia!” e accettato per costrizione familiare, ma che diventa, nel tempo, molto amato: “non avrei mai creduto che mi piacesse così tanto lavorare. In pochissimo tempo avevo imparato a fare un sacco di cose”.

Un lavoro amato, in particolare, quando alla protagonista viene data la possibità “di fare un lavoro per cui mi veniva richiesto, oltre all’uso delle mani, anche l’uso del cervello” riempiendola di eccitazione e di orgoglio.

Ma amato anche quando era ripetitivo “… anche l’esecuzione di un lavoro che non richiedeva grande impegno mentale poteva presentare dei vantaggi. Dopo poco tempo infatti vedevi che le mani andavano per conto loro e tu potevi permetterti di viaggiare con la fantasia dove e come volevi … potevi anche chiacchierare con le donne che ti stavano accanto o semplicemente stare a sentire quello che si dicevano”.

Un lavoro che ha regalato anni “pieni”, ma, come dice Maria Pia Trevisan ”pieni di cose che hai deciso tu, solo in conseguenza di ciò che altri avevano deciso per te”. “Altri” che “hai scoperti mentre si appropriavano, nel frastuono delle macchine, di spazi sempre maggiori del tuo tempo, della tua libertà, proprio nel momento in cui sentivi più urgente il bisogno di volare. Ma tu non hai potuto, né voluto impedirglielo. Ad un certo punto hai sentito che il lavoro stava diventando la parte più importante della tua vita. Ti sei sentita legata ad esso da un rapporto di odio-amore. Subalterna”.

Un lavoro che diventa parte integrante della vita: “Provi anche a separare mentalmente il tempo di lavoro e il tempo di vita. Non ti riesce. Le relazioni umane che hai intessuto dentro la fabbrica hanno reso “tempo di vita” anche il “tempo di lavoro”, e la responsabilità del tuo lavoro ti resta appiccicata addosso anche nel tuo tempo di vita. Non sei semplicemente “tu”, sei entrata nel personaggio che ti sei costruita in fabbrica”.

Maria Pia Trevisan attraversa diverse esperienze di lavoro: agli inizi degli anni ’50 in una fabbrica di Vigevano che produceva stivali, dopo due anni un’altra fabbrica di scarpe. Sei anni dopo l’avventura del lavoro autonomo – la meno felice - insieme al marito. In questi anni nascono due figli. Poi la separazione dal marito, il trasferimento ad Abbiategrasso, una breve esperienza in una fabbrica di laminati plastici, e infine l’ingresso in Mivar, azienda capofila nella produzione delle TV a colori, quella in cui si compie la maturazione personale, lavorativa, politica di Maria Pia Trevisan. Siamo alla vigilia del 1969.

Nella descrizione del suo graduale avvicinamento al sindacato, alle lotte, è evidente come sia questa grande forza che si stava sviluppando tutto intorno a lei a strapparla dalla sua dimensione privata di madre lavoratrice, per proiettarla in quella pubblica e collettiva: “Per quello che poteva comprendere una persona come me, più concentrata sui suoi problemi personali che non su quelli politici e sociali, la forza di quelle richieste era più che sufficiente a convincermi a partecipare agli scioperi, anche se ciò comportava per me ulteriori sacrifici … non avevo mai visto manifestazioni di lavoratori così imponenti. Io non mi sentivo ancora pronta a partecipare, ma guardavo tutte quelle persone sfilare per le strade e le piazze delle grandi città, attraverso il piccolo schermo del televisore”.

La spinta decisiva viene dalla strage di Piazza Fontana: “A trascinarmi in piazza la prima volta fu la strage compiuta alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana. Quella notizia mi sconvolse letteralmente”.

Maria Pia Trevisan è una donna capace di fare separazioni, di chiudere periodi per aprirne altri. Questa capacità, così difficile da possedere, emerge con evidenza in tutta la lettura del libro, e in un punto è lei stessa a dichiararlo: “Quelle vicende fanno già parte della storia da cui è necessario accomiatarsi per potersi protendere verso quella che nascerà subito dopo”. E’ questa capacità che le permette di guardare alla sua storia personale, e agli eventi che con questa si sono intrecciati, con consapevolezza. C’è grande partecipazione emotiva nelle pagine del libro, ma c’è anche distacco. E quindi indulgenza e ironia, verso sé e verso gli altri.

Ne è un esempio la descrizione degli scontri che si verificarono in Mivar a fine 1969 tra gli scioperanti e i crumiri, spalleggiati dal padrone. Episodi drammatici, al momento, che coinvolsero non solo la fabbrica, ma tutto il territorio circostante: sindacati territoriali, forze dell’ordine, istituzioni locali, parlamentari, organizzazioni studentesche, Acli, circoli associativi e culturali, e cittadinanza tutta. Erano anni in cui non vi era separazione tra “fabbrica e società”. Ma, alla distanza, Maria Pia coglie i lati paradossali di quel confronto fisico, e non a caso titola il capitolo “Comica finale”.

Ho parlato all’inizio della capacità di Maria Trevisan di essere consapevole dell’ambivalenza dei rapporti, e di saperla descrivere. Il racconto che lei fa del suo lunghissimo scontro con Vichi, il padrone della Mivar lo dimostra perfettamente. La personalità di questo personaggio è molto particolare, e attira subito la curiosità di Maria Pia, allora giovane operaia: “In realtà l’avevo già visto, ma non sapevo chi fosse. Per me poteva essere un dipendente qualsiasi, un operaio dell’attrezzeria oppure un meccanico addetto alla manutenzione delle macchine. Al massimo un capo reparto. La scoperta che quell’uomo alto poco più di un metro e mezzo, snello, agilissimo, velocissimo, fosse il padrone, accese la mia curiosità … Anche quando si fermava accanto ad una postazione di lavoro per verificare il funzionamento di uno strumento, o di un attrezzo di sua invenzione, era veloce. Veloce nella valutazione della sua perfezione o nella scoperta di eventuali modifiche da apportare”.

Un uomo autoritario, anzi, proprio fascista, che non poteva concepire il dialogo, ma solo lo scontro. Per il quale “ci doveva essere sempre una guerra prima di ogni contrattazione”. Ma anche un uomo “geniale” per il quale la fabbrica che lui aveva creato era talmente un’estensione di sé stesso che, dopo gli eventi dell’autunno caldo “Per cinque lunghi anni egli si ritirò tra le pareti domestiche a leccarsi in perfetta solitudine le ferite di quella che considerò e continuò a considerare per tutta la vita, una sconfitta da vendicare. Per cinque lunghi anni ci privò della sua presenza. Per non incontrare i “traditori” entrava nello stabilimento dopo l’orario di lavoro e nei giorni festivi. Io sono certa che Vichi lo avesse fatto perché era “innamorato” del suo lavoro”.

Un uomo che pretendeva obbedienza, “Spesso odioso nell’affermare il suo potere senza mediazione e insopportabile nella monotona esaltazione dei suoi “tristi” miti di riferimento. Un uomo che però sembra celare in sé anche l’anima del poeta e del filosofo … Il timbro della sua voce e il suo aspetto fisico, chissà perché, mi ricordano Pier Paolo Pasolini”.

Il distacco si compie alla fine anche verso questa figura centrale del libro, e nello stesso tempo, inevitabilmente, verso la se stessa di allora: “Non so il perché, ma forse per la prima volta, riuscivo a non prenderlo e a non prendermi troppo sul serio. Nemmeno quando espresse la sua avversione nei confronti del sindacato mi venne voglia di infierire contro di lui”.

L’incontro tra i due, a distanza di tanti anni, avviene per un invito rivolto ad entrambe a partecipare ad una lezione nell’ambito di un corso specialistico della Università Bocconi. E’ l’evento che rimette in moto in Maria Pia l’accumulo dei ricordi, ma le ci vorranno altri dieci anni per poter scrivere questa storia in un libro. Rielaborazioni e lutti richiedono il loro tempo.

Maria Pia osserva gli studenti che ascoltano ammirati il vecchio imprenditore. Lei mantiene una distanza, dice di non poterlo considerare, come un giovane che aveva fatto sul caso Mivar la sua tesi di laurea, un “maestro di vita”, ma confessa che, se le è capitato di uscire perfino “sconvolta” dal suo delirio di onnipotenza, altre volte, invece, le è capitato di sentirsi “affascinata dalla sua arte affabulatoria”.

Alla fine della giornata che li ha fatti reincontrare finiranno a mangiare cioccolatini, scherzando tra loro, con un po’ di imbarazzo.

Mi viene da dire: se non è stato un amore passionale questo … !

E le donne?

Le donne sono amatissime, descritte una per una. Dalla madre, alla nonna, alle singole compagne delle diverse fabbriche dove Maria Pia ha lavorato. Una serie di ritratti brevissimi, ma pieni di vita. Poi c’è la lotta per la parità, per l’emancipazione. C’è la contrattazione “in rosa”, con risultati straordinari: la conquista di un periodo sabbatico per motivi familiari, ma anche di studio e culturali, coperto in parte da un anticipo sulla liquidazione; la riduzione dell’orario di lavoro su base settimanale, il part time reversibile.

In Mivar nacque anche un “Collettivo donne, per approfondire e divulgare i temi sull’emancipazione femminile, e sui diritti di parità”. Non vi è però cenno alla esperienza dei Coordinamenti Donne Flm. Il femminismo resta sullo sfondo, il centro resta quello della parità e dell’emancipazione.

Il lavoro, anche in Mivar, ha la sua grande fatica: i turni, partire da casa alle cinque e mezzo del mattino per raggiungere la fabbrica in bicicletta, la nocività dei fumi, i ritmi.

Nonostante questo, l’amore per il lavoro può nascere perché, in quegli anni, al di là delle mansioni in sé, era un lavoro intessuto a una storia, alla creatività, alla certezza di un futuro in costruzione.

Così, in mezzo a questa fatica si fanno spazio momenti di grande poesia:

“Dalle sei alle due e dalle due alle dieci. Andavo sempre in bicicletta e, specialmente quando facevo il turno del mattino, mi sembrava che il mondo intero mi appartenesse. Partivo di casa alle cinque e mezzo, quando il giorno non era uscito del tutto dalle ombre della notte e tutto intorno era silenzio. Potevo ascoltare il fruscio delle fronde mosse dalla brezza mattutina, il cinguettio frenetico degli uccelli, il suono di una sveglia che usciva da una finestra del piano terreno di un caseggiato che incontravo sulla mia strada, potevo sentire il profumo del pane che usciva dal negozio ancora chiuso del fornaio, salutare il giornalaio che alzava la saracinesca della sua edicola, partire per un lungo viaggio insieme al fischio del treno”

“Mi piaceva molto osservare le piccole aggregazioni colorate e vocianti che scendevano dai pullman, percorrevano brevi tratti del lungo corridoio asfaltato e si lasciavano ingoiare dalle porte a vetri che immettevano nei vari reparti. Spesso lasciandosi dietro piacevoli scie di profumo. In quella situazione, per me del tutto nuova, mi parve possibile ricominciare tutto daccapo”

“Tutto era garnde in quella fabbrica. I reparti, le presse per la produzione dei pannelli decorativi, le macchine impregnatrici. Tutto ciò mi stupiva e mi incuriosiva. Nonostante l’aria dei reparti fosse satura di esalazioni di resina e di formalina, io sentivo che il mio respiro si faceva ogni giorno più largo e che il mio sguardo si allargava, sempre di più, oltre il mio naso”.

Si fa tanto parlare oggi dei danni di una presunta rigidità dei rapporti di lavoro. Di lavoratori abbarbicati al posto fisso che metterebbero in crisi la competitività delle imprese. Ormai se ne parla davvero a vanvera. La rigidità che viene buttata come una colpa sulle spalle di chi lavora, è imposta dalla situazione di asfissia, di mancanza di prospettive in cui ci hanno precipitato. Leggendo il libro di Maria Pia in realtà si vede che in una situazione in cui il lavoro c’è, sono gli stessi lavoratori a decidere di cambiare:

“Cambiare posto di lavoro a 17 anni era per me come ripartire per una nuova avventura, con il bagaglio della precedente esperienza sulel spalle” … “Cambiare ambiente restituisce movimento alla scena, mi dissi, e nella logica del ricominciare tutto daccapo decisi di cambiare, nuovamente, posto di lavoro”.

Si entrava in un mondo organizzato, con le sue leggi “Una volta varcati i cancelli della fabbrica i doveri da rispettare, quelli contrattati e quelli imposti dall’azienda, diventavano per me e per tanti altri indiscutibili. Scontatamente indiscutibili. Senso comune”. Viene richiesta una “ subordinazione” all’azienda di cui l’autrice diventa pian piano consapevole, per poi iniziare a metterla in discussione: “Se non ci prendiamo in mano il nostro destino, se non impariamo a guardare le nostre condizioni di lavoro e intervenire direttamente sulla sua organizzazione, ci ridurranno come dei robot”.

Ma questa forte struttura e organizzazione dell’azienda forniva anche un riscontro preciso, con cui misurarsi, e garantiva una stabilità delle relazioni tra lavoratori che è stata fondamentale, in allora, per la costruzione di un discorso politico.

Un’ultima notazione: Maria Pia Trevisan sa guardare alla realtà umana di chi ha potere, dei padroni, al di là del ruolo. Non c’è nessuno schematismo da “padrone cattivo” nella sua descrizione di queste figure. Sa riconoscere le qualità, e anche gli aspetti di fascino, di queste personalità. Non solo del padrone della Mivar, ma anche di altri, come quello di cui dice “Solo in quel momento colsi la maestosità e insieme la semplicità di quel “padrone”” .

Ma nello stesso tempo mantiene la sua piena autonomia.

Nel corso della mia vita sindacale, lunga, ho incontrato tanti, tanti sindacalisti iper gratificati dal sentirsi oggetto della considerazione dei dirigenti. Dall’essere chiamati a parte per una informazione “riservata”. Dal sentirsi affidati dei compiti delicati “A lei lo posso dire … veda lei come se ne può uscire …”. Beati di questa investitura.

Maria Pia non ha nessun bisogno di queste gratificazioni e investiture: credo che questo sia un tratto comune alle donne che per conquistarsi la loro autonomia hanno dovuto combattere una battaglia sui mille fronti del privato e del politico.

Paola Pierantoni