Luciana 1969                                                                                                                                                          torna indietro

Il mio primo lavoro: ho 19 anni

 

Il mio primo lavoro: ho 19 anni, l’ufficio di collocamento mi contatta per un lavoro come “addetta mensa”. Accetto senza sapere bene di cosa si tratta.

Era l’occasione per uscire di casa, cercare l’indipendenza economica forse la libertà.

Mi presentai all’ufficio della SO.GE.ME. Espletate le pratiche di assunzione, mi diedero una divisa, camicetta, cravatta e gonna e senza altre spiegazioni mi mandarono a fare servizio alla mensa del C.M.I. (Costruzioni Meccaniche Industriali). Non c’era niente da imparare, ero una donna e in quanto tale dovevo saper distribuire cibo, aiutare in cucina, pulire.

Arrivata davanti ai cancelli della fabbrica trovo uno sbarramento di operai in tuta blu: erano tanti, chiassosi intenzionati a non far entrare nessuno.

Vedo il mio primo sciopero, non conoscevo niente del mondo del lavoro. Fu un impatto decisamente emozionante. Era il mio primo giorno di lavoro.

Poco dopo ci fecero entrare: si scioperava ma si doveva anche mangiare!

Il primo giorno di lavoro, come molti altri, è stato abbastanza traumatico. Ricordo i locali della mensa, immensi e all’improvviso si riempivano di una massa di uomini. Noi eravamo otto donne e con un carrello attrezzato dovevamo distribuire ad ognuno di loro il primo, il secondo con contorno. Spesso le quantità che la cucina ci dava da distribuire non bastavano (molti chiedevano porzioni abbondanti), il tempo per il pasto era solo di mezz’ora e io dovevo correre per questi lunghissimi locali a recuperare cibo dalle cucine (sarebbe stato utile avere dei pattini a rotelle!)

Ricordo la mia timidezza, disorientamento, disagio. Mi sentivo il loro sguardo addosso, qualcuno era gentile, complimentoso altri si divertivano nel mettermi a disagio. Avrei voluto scomparire; questi primi giorni per la tensione e lo stress ho pianto. Di notte avevo gli incubi, sognavo il cibo che mi scivolava dalle mani non riuscivo a prenderlo e gli uomini urlavano. Era veramente un lavoro duro e faticoso. Quando gli operai lasciavano la mensa dovevamo sparecchiare e ripulire i tavoli e i locali. Finalmente alle 14 pranzavamo noi. Subito dopo coperte da un grembiule di plastica e calzati stivali impermeabili, dovevamo lavare a mano centinaia di stoviglie, alla fine eravamo comunque bagnate dalla testa ai piedi.

Di questo lavoro avevo capito, dopo qualche settimana, che si conosceva l’ora di entrata ma non si conosceva mai l’ora di uscita, che lo stipendio era molto basso e non pagavano le ore che facevamo in più. Nei locali mensa, proprio per le loro grandi dimensioni si tenevano le assemblee sindacali, c’erano scioperi ogni giorno. Dalla cucina vicina sentivo i discorsi degli operai e sindacalisti e mi trovavo a pensare e condividere le loro istanze.

Con noi addette mensa, spesso pranzava un delegato esentato della Commissione Interna. Parlava della fabbrica del ruolo del sindacato, spiegava le ragioni degli scioperi. Raccontava episodi di storia. Grazie a lui, al suo saper spiegare, raccontare, ho cominciato a conoscere il ruolo della politica e del sindacato. Lo incalzavo di domande. Era un uomo straordinario, aveva fatto la Resistenza e spiegava le cose con una dolcezza e un rispetto incredibili. Emanava calma e sicurezza nonostante gli argomenti forti e il terremoto quotidiano degli  scioperi di quel periodo. Tutto si muoveva velocemente, mi iscrissi alla CGIL, cominciarono gli scontri con la capo mensa e il datore di lavoro. Questo accadeva per il riconoscimento delle ore di lavoro in più, per ridurre il carico di lavoro troppo massacrante, migliorare l’igiene e la sicurezza, ma anche per un salario più giusto. Ma essendo dipendente di una azienda presente con pochi dipendenti distribuiti nelle diverse mense in Genova e oltre, avevamo molte difficoltà ad organizzarci e fare le nostre rivendicazioni.

Proprio per questo l’azienda aveva un atteggiamento paternalistico e manipolatorio. Ottenemmo solamente il riconoscimento dello straordinario. Un giorno, dopo l’ennesima lite col capo, poco prima che iniziasse la distribuzione del cibo in mensa, mi tolsi la divisa e me ne andai sbattendo la porta. Dopo un anno e tre mesi era ora che cambiassi lavoro! Pochi giorni dopo fui assunta come operaia al Tubettificio Ligure.

Il colloquio fu solamente col capo fabbrica, che valutata la mia robustezza fisica acconsente all’assunzione come operaia alla catena di montaggio, mansione che svolgevano solo le donne perché dicevano che eravamo portate alla ripetitività, più resistenti allo stress. Dieci anni in questa fabbrica, luogo di grosse esperienze, di lotte sindacali e di emancipazione femminile. Ma la crisi delle industrie nella Valpocevera mi portarono alla ricerca di un muovo lavoro. Ricordo il colloquio all’Ansaldo Campi, dopo la visita del medico di fabbrica. Il capo del personale che mi chiede perché voglio cambiare lavoro, quali sono i miei hobby, cosa mi piace, se sono sposata che differenze ci sono tra me e mio marito, se ho intenzione di avere figli. Come la penso politicamente. Alla termine di questo colloquio ero veramente perplessa e arrabbiata, dovevo essere assunta come operaia per saldare schede elettroniche. Forse non feci una buona impressione perché fui dichiarata non idonea “fisicamente”, e dato che provenivo già da una fabbrica trovai non vera la motivazione. Mi rivolsi al sindacato così finalmente fui assunta. Negli anni trascorsi continuai la scuola serale, e all’interno dell’azienda potei fare un percorso professionale fino alla pensione come impiegata.